31 luglio 2010

31 luglio 2010

Il giorno del nostro ritorno a Dar Es Saleem, il 16 giugno, ci raggiunge la notizia della scomparsa di Corso Salani. In sua memoria pubblico un ritratto di donna. Non so come ricordarlo altrimenti. La notizia mi trova in un viaggio che assomiglia ai suoi. Con la videocamera sempre in mano. A cogliere quello che capita. Improvvisazione totale. Come metodo per mettere in relazione onesta il viaggiatore e il luogo visitato. Ogni altro approccio aveva per lui una freddezza, una falsità, intollerabile. La ragazza della foto è Susanna. Una volta, ad un festival, mi aveva detto di lei: “Non fo’ per dire, ma quello là le si è appiccicato da venti minuti..”
Era geloso al posto mio. Questo era Corso. Un viaggiatore sempre innamorato e sempre inquieto, sposato a Margherita di cui parlava pochissimo, rispettoso e discreto con lei più che con chiunque. Rispettoso e discreto con chiunque, soprattutto quando aveva la videocamera in mano.

Ci spostiamo per la città sui “dalla-dalla”, che a flusso continuo la attraversano. Un modo per conoscere la topografia del luogo, familiarizzare con i quartieri che attraversiamo. Sono pochi i bianchi che usano i mezzi pubblici. C’è sempre qualcuno che si offre di avvertirci quando arriviamo alla nostra destinazione, che ci suggerisce il percorso. Con molta gentilezza. Viceversa è brutale, selvaggio, il caos per salire e scendere. Ci si spintona, ci si fa largo con forza o si perde il posto. Ma è un caos al quale ci si abitua e a poco a poco se ne capisce la funzionalità. L’essenzialità. Nel muoversi per il labirinto del centro decadono le ipocrisie della buona educazione occidentale ma c’è allo stesso tempo più rispetto e nessun rancore personale. Nessuno si sogna di dire “prego, si accomodi” ma nemmeno di insultare, di farsi venire un accesso d’ira biliosa. Si è tutti sballottati come nella pancia di una nave o di un grosso pesce, impotenti, indifferenti.
Ci si sente piccoli e in balia degli eventi, ed è molto tranquillizzante.

In un take away indiano un indo-africano (da 150 anni esiste una comunità indiana trasferitasi tra Zanzibar e la costa) con cui dividiamo il tavolo ci offre una buona conversazione e il pranzo. La donna alla cassa sorride: “qui avviene spesso”. Siamo nel quartiere centrale, degli uffici e della vita economica. Gli indiani sono chiaramente un’elite, dai modi e dalle abitudini raffinate, eleganti, molto innamorati dell’Africa e del paese dove si trovano.

Ci fermiamo nei negozi, ad esempio in uno che vende cd musicali. In Tanzania esistono apparentemente due generi musicali: gospel, con testi di religiosità cristiana, e “Bongo Flava”, una sorta di hip hop con influenze di ritmica tradizionale e melodie arabeggianti. Quest’ultima è la musica dei giovani, quella che parla della società e anche dei suoi problemi. “Solo da pochi anni in Tanzania si è affermata l’idea che attraverso la musica, il cinema, le arti, si possa esercitare critica sociale o semplicemente riflettere sul paese, prima i temi erano solo quelli sentimentali o di narrazione di storie tradizionali.” I cantanti di Bongo Flava sono i primi “cantautori” tanzaniani.

Avvicinandosi la ripartenza decidiamo di vedere anche il mare e le isole.
E si apre una nuova dimensione. L’oceano indiano e le influenze indiane, orientali. Il mare di Zanzibar è di un verde smeraldo cangiante che ammalia. Si può rimanere a guardarlo per ore. Ci arriviamo con il “Ghari la shamba”, letteralmente una “vettura di campagna”. Un camion con il pianale telonato su cui si siedono i viaggiatori. Ad ogni villaggio qualcuno carica un sacco di riso, una gabbia di polli, o lascia al conducente un messaggio da riferire alla prossima stazione, e qualcuno si sistema sul pianale, prendendo il posto di chi è sceso.
La sera, sulla spiaggia di Zanzibar, sfuggiti all’assedio di Stone Town, dove i locali seguono e assillano i turisti anche per ore, instancabili, offrendo ogni genere di servigi, camminiamo nel silenzio che ha per sottofondo il boato lontano delle onde che si infrangono oltre la barriera corallina, un ruggito che incute timore, quando vi si presta attenzione. Con il poco swahili che abbiamo imparato ci rivolgiamo a un uomo che raccoglie alghe sulla battigia. Ci risponde con un lungo discorso, di cui capiamo solo l’inizio e poi assolutamente più nulla. Ci sorride alla fine e noi sorridiamo. “Asante. Usiku mwema.” Grazie, buona serata. Abbiamo l’illusione di essere finalmente entrati a fare parte della pancia immensa, oscura e dolce dell’Africa.

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